Alfonso Pepe

Il metodico ed entusiasmante viaggio verso il perfetto Burger Bun - Prima Parte

Copertina Burger Buns

Il mio delirante amore per Bun e Hamburger è nato circa 8 anni fa, quando per ravvivare le pesanti sessioni di studio universitario ero solito improvvisare pause pranzo creative con un amico, che in quel periodo aveva iniziato a lavorare presso Mc Donald’s per tirar su qualche briciolo di vile denaro.

Ebbi la malsana idea di replicare uno dei loro panini di punta, e fu solo il primo di una lunga serie: in pochi anni avevamo tirato fuori dal cappello un’onesta trentina di hamburger, studiando minuziosamente ogni singola fase del processo produttivo.

Popeye Ale Burger

Una delle nostre prime creazioni, il Popeye Ale Burger: Patty di maiale impanato e fritto, Spinaci novelli saltati in padella, Speck dell’Alto Adige IGP, Grana Padano DOP 16 mesi, Salsa di ricotta, spinaci e scorza di limone.

Di lì a poco iniziarono ad affascinarmi le parole, lo spirito di condivisione e i metodi casalinghi per la panificazione dei più conosciuti militanti del settore, panettieri o pizzaioli che fossero.

La congiunzione delle due passioni non tardò ad arrivare.

Considerando che le panetterie della zona non avevano nulla che potesse fare a caso nostro, fino ad allora eravamo stati costretti ad affidarci ai prodotti da supermercato, con un pane che poco si discostava da quello delle grandi catene di fast food: nessun sapore pervenuto, consistenza cartacea e l’irreale capacità di sfaldarsi al semplice tocco, figuratevi se riempito di etti di succulenta ciccia fumante.

Arrivare a fine pasto con il Bun ancora integro era una sfida di quelle toste.

Dopo aver visto le regole per un hamburger perfetto ad opera di Gianfranco Lo Cascio, vi invito a seguirmi in questa prima parte della nostra guida per realizzare degli ottimi Burger Bun dove racchiudere succosi patties, bacon croccante, cremose fette di formaggio e qualunque altra cosa la vostra fantasia possa produrre.

Una piccola precisazione: sono fortemente convinto che in cucina il concetto di “ricetta” sia blasonato, abusato e dall’utilizzo errato, soprattutto nel mondo della panificazione; ciò che importa è il metodo, non una lista di ingredienti recuperati online.
Una volta appreso, nessuno vi impedirà di sperimentare, calcolare le dosi e variarle a seconda di tempi e condizioni, un concetto che, al termine di questa guida, spero di avervi trasmesso.

Questo per dirvi che non parleremo di “ricette”, ma di un insieme di nozioni e metodi volti al raggiungimento di un unico obiettivo.

Le caratteristiche di un Bun

Quali sono le peculiarità di Burger Bun perché la vostra esperienza gustativa si trasformi in qualcosa di indimenticabile?

Vediamole insieme: deve essere soffice, quasi una morbida nuvola, avere struttura senza ostacolare il morso, essere presente come sapore ma non invadente; in altre parole, si tratta di un connubio equilibrato tra le diverse parti in gioco.

Shelter Ale Burger

Altro giro, altro Hamburger: Homemade Brioche Bun, Speck dell’Alto Adige IGP, Patty di Fassona Piemontese, Stracchino fresco e Homemade Fries.

Primo concetto fondamentale: in panificazione, per raggiungere un obiettivo, non esiste un’unica via, e ogni dettaglio si dimostra estremamente importante, dalla scelta della materia prima, ai dispositivi di cottura, alle condizioni esterne di umidità e temperatura o al tempo a propria disposizione.

Fissati i preconcetti e focalizzato l’obiettivo, analizziamo insieme ogni elemento, al fine di raggiungere lo scopo prefissato.

Gli ingredienti

Nella maggior parte delle ricette reperibili in rete sono presenti errori o mancanze che, vi assicuro, sono tutto fuorché trascurabili.

Anzitutto, spesso e volentieri, la farina è indicata genericamente o ci si ferma alla banale tipologia (00, 0, 1 o 2), che di per sè non significa nulla, in quanto attesta il grado di abburattamento (percentuale di farina estratta da un chicco) per il solo Grano Tenero, non le sue caratteristiche tecniche né il cereale.

Fondamentale è valore di Forza (W), che indica la quantità di glutine presente nella farina; più tale parametro è elevato, maggiore sarà il grado di assorbimento dei liquidi dell’impasto, oltre alla capacità di formare una maglia glutinica più o meno forte, ovvero una fitta rete proteica formatasi durante l’impastamento in grado di trattenere i gas della lievitazione e conferire struttura e solidità al prodotto finito.

La maglia glutinica di un impasto per panettone

Lo spettacolare effetto creato da una salda maglia glutinica, ben visibile in un impasto per Panettone.

Va da sè che la presenza di elementi pesanti (come latte, burro e uova) richiede l’utilizzo di farine forti con un W superiore ai 280-300, indispensabile per ottenere un prodotto leggero e alveolato.

Purtroppo nelle farine commerciali tale valore non viene riportato; una buona soluzione è quella di contattare il mulino selezionato per richiedere i dettagli tecnici o, in alternativa, basarsi su una percentuale di proteine indicata sul pacchetto pari o superiore al 13%, tenendo presente tuttavia che non tutte producono glutine, e che questo discorso vale per altro per il solo grano tenero.

N.B. Evitate COME LA PESTE le cosiddette farine magiche, con glutine aggiunto, con miglioratori specifici o autolievitanti, dove non sono specificati i mulini e le caratteristiche basilari.

Farina di grano tenero di tipo 1 macinata a pietra

La qualità della farina si riconosce a prima vista, specialmente se è stata macinata a pietra.

Il Grano Tenero è il cereale panificabile per eccellenza, e il più consigliato per iniziare proprio per la sua semplicità di gestione. Il suo elevato contenuto di glutine tuttavia richiede degli accorgimenti perché l’obiettivo morbidezza venga raggiunto; nella maggior parte dei casi infatti, la struttura cristallizza, donando una fragranza ed una croccantezza impareggiabile, che tuttavia poco si presta alle caratteristiche di un Bun.

I grassi come il latte o il burro rendono l’impasto più estensibile e malleabile, e avvolgendo le bolle di anidride carbonica formatesi le stabilizza, migliorando l’alveolatura e la struttura della mollica, che risulta più fine, soffice ed omogenea.
Le proprietà dell’uovo hanno invece proprietà schiumogene, coagulanti (principalmente nell’albume) ed emulsionanti (nel tuorlo).
Utilizzare tali elementi è quindi la via più semplice e usata per realizzare il cosiddetto Brioche Bun, dal caratteristico colore ambrato, sapore dolciastro e dalla morbidezza irresistibile.

Non è certo l’unica via verso le nuvole.

Cereali come il Farro Grande (o Spelta), il Farro Piccolo (o Monococco) e la Segale contengono percentuali decisamente minori di glutine, al punto che il W non viene nemmeno calcolato. Sono panificabili, ma la loro scarsa capacità di formare una maglia glutinica salda rende necessario diminuire sensibilmente la quantità di liquidi nell’impasto per non appesantire la struttura; in alternativa è possibile utilizzarli in aggiunta a una grossa % di Grano Tenero.

Specie Triticum

Di contro, la loro struttura è più semplice a livello cromosomico, e il loro grado di assorbimento è decisamente elevato, specie se la macinazione è stata condotta a pietra e non a cilindri, in modo da conservare quegli elementi del chicco di grano più importanti a livello nutritivo (germe e crusca); i prodotti che ne risultano sono morbidi, estremamente nutrienti e digeribili, dal sapore rustico e caratteristico.

Aggiungere quindi un mix di questi cereali in percentuale del 30-40% ad una base di grano tenero consente di evitare (per gusto, leggerezza o problemi di intolleranza) l’aggiunta dei grassi sopra citati, raggiungendo un risultato non identico ma simile, e comunque in linea con gli obiettivi.

La maturazione

L’ennesimo concetto fondamentale, seppur poco conosciuto e anzi, spesso confuso con la lievitazione.
La maturazione è la serie di processi microbiologici che hanno luogo all’interno dell’impasto, durante i quali le complesse catene proteiche si semplificano in amminoacidi più semplici, dando vita a un vero e proprio processo di digestione.

L’importanza della maturazione è presto detta: tutto il lavoro svolto in tale fase non dovrà poi esser compiuto dal nostro corpo, e i prodotti consumati risulteranno enormemente più leggeri e senza produrre la tipica sete notturna, indice di un impasto gestito malamente.

La lievitazione è soltanto uno di questi processi, l’unico visibile ad occhio nudo e influenzabile dalla temperatura. L’attività dei lieviti ha il suo massimo a circa 30 °C, rallenta fino a quasi fermarsi a 4 °C e cessa con la loro morte oltre i 60 °C; altro giro, altro mito da sfatare: una pessima pizza non lievita in pancia, bensì risulta indigesta per le considerazioni sopra riportate.

La maturazione di un impasto

L’effetto della maturazione e della lievitazione meccanica di un impasto dopo una lunga puntata in frigorifero.

Il metodo classico per far maturare un impasto interrompendo l’azione dei lieviti, prevede l’utilizzo di un ambiente freddo, preferibilmente senza sbalzi di temperatura e a 4 °C costanti; in mancanza di attrezzatura professionale il ripiano inferiore del vostro frigorifero andrà benissimo.

La struttura complessa del grano tenero richiede almeno 24 ore di maturazione, meglio se 48, mentre cereali più semplici come il farro Spelta o la segale sono già pronti in 4 ore; addirittura, la struttura cromosomica del farro monococco è tale che una sua maturazione di 3 ore è paragonabile a quella del grano tenero condotta per ben 72 ore.

Ancora, i prodotti che presentano una percentuale di Grano Duro al loro interno devono sottostare a tempi di maturazione simili a quelli del fratello tenero, pur beneficiando di una particolare morbidezza e spugnosità grazie ad un glutine più teso e ad una conseguente alveolatura più fine e diffusa.

Capite quindi come, a seconda dei tempi a disposizione, cambino sensibilmente le scelte circa gli ingredienti da utilizzare.

Il tipo di impasto

Parliamo di impasto diretto quando tutti gli ingredienti vengono miscelati in un’unica fase, alla quale seguono una prima fermentazione aerobica (grazie all’ossigeno introdotto durante la lavorazione) denominata puntata, la formazione dei panetti detta staglio, e un’ulteriore fermentazione alcolica in assenza di ossigeno, cioè anaerobica (durante la quale i lieviti sintetizzano gli zuccheri producendo alcol etilico e anidride carbonica) denominata appretto.

Diversamente, l’impasto indiretto prevede una prima fase di pre-impasto con acqua, farina e un piccolo starter, al quale verranno aggiunti dopo una prima fermentazione i restanti ingredienti; in particolare distinguiamo tra biga (pre-impasto duro ottenuto con farina di forza (pari o superiore a 300 W), il 44% di acqua e l’1% di lievito di birra fresco, lasciato maturare per almeno 16 ore), poolish (pre-impasto liquido ottenuto con farina di almeno 280 W, acqua di pari peso e lievito di birra tra lo 0,1 e il 3%) e il lievito madre (pre-impasto costantemente rinfrescato a partire da farina e acqua nella percentuale scelta, che sfrutta la fermentazione naturale del cereale senza l’utilizzo del lievito di birra come starter).

Biga

Come si presenta la biga PRIMA e DOPO la sua maturazione.

I vantaggi di un impasto indiretto riguardano una maggiore digeribilità, un’alveolatura più regolare, un gusto più intenso e soprattutto una shelf-life più duratura grazie alla fermentazione acido lattica.

Il prezzo da pagare è una gestione non proprio basilare, che richiede un ambiente a temperatura controllata e una cura attenta e rigorosa, specie per quanto riguarda il lievito madre; un pre-impasto non sufficientemente maturo rischia di non innescare alcun processo nelle fasi successive, mentre un riposo eccessivo può sviluppare livelli di acidità indesiderati. In ambiente casalingo si prediligono perciò biga e poolish (la cui fermentazione è in parte acida e in parte alcolica) ad un lievito madre decisamente più impegnativo da gestire.

Lievito Madre

Panificare con il lievito madre è una delle soddisfazioni più grandi, a dispetto tuttavia di una gestione non proprio semplice per il contesto casalingo.

Ad ogni modo, la scelta dell’uno o dell’altro metodo dipende essenzialmente dal tipo di prodotto che si desidera ottenere: se il consumo segue immediatamente la cottura (come nel caso della pizza) un impasto di tipo indiretto ha relativamente poco senso a meno di casi particolari o di necessità dettate dal contesto (come nel caso della cottura al Barbecue), mentre se il consumo è spalmato su un periodo più o meno lungo (pane o prodotti da banco) i vantaggi su una shelf-life più duratura sono decisamente da preferirsi.

Last but not least, esiste un altro tipo di impasto molto particolare che grazie alla gelatinizzazione degli amidi consente di ottenere livelli di morbidezza e shelf-life assurdi, e che prende il nome di Water Roux (Tang Zhong nella lingua originale), una tecnica cinese che utilizza farina e acqua in proporzione di 1:5 (1:10 nel caso del Milk Roux con il latte come parte liquida), dove la farina deve essere il 6% sul totale utilizzato; riscaldando il composto in un pentolino fino al raggiungimento dei 65 °C (stando attenti a non incorrere nella formazione di grumi) per poi farlo raffreddare con pellicola a contatto prima di aggiungerlo al resto degli ingredienti.

Water Roux

Il Water Roux ad addensamento raggiunto. Foto di burgerboss.it

Il vantaggio è chiaro: raggiungere in un colpo solo gli stessi benefici ottenibili con l’utilizzo di latte, burro e uova o di un impasto indiretto.

Impastamento

Qualunque siano gli ingredienti o il tipo di impasto utilizzato, la procedura di lavorazione è del tutto identica, a meno dei tempi di riposo.

Il mio consiglio è quello di partire sempre con i liquidi freddi e, nel caso in cui si utilizzi un’impastatrice, di porre gli stessi attrezzi in frigorifero mentre si predispongono gli altri ingredienti. Considerando infatti che la maggior parte dei processi microbiologici ha inizio a 24 °C, sarà questa la temperatura di riferimento alla quale interrompere la lavorazione; è tuttavia importante non superare i 27 °C, in quanto sopra una certa soglia il glutine degrada, e la struttura del nostro impasto risulterà umida e cedevole.

Rovesciate quindi in una ciotola tutta la farina, il 75% dell’acqua prevista e l’agente lievitante (che sia esso il lievito di birra disciolto in poca acqua o il pre-impasto scelto); vi consiglio di usare un cucchiaio di legno o, nel caso disponiate di un’impastatrice, utilizzate la foglia per agevolare la miscelazione.
Dopo aver amalgamato per bene gli ingredienti nella prima manciata di secondi, aumentate la velocità a un ritmo sostenuto per permettere alla maglia glutinica di formarsi per azione dell’energia cinetica apportata.

Dopo qualche minuto fermatevi, allargate l’impasto e versate il sale al centro, per evitare che l’attrito sviluppatosi sui bordi del recipiente possa scaldare il semilavorato; è inoltre importantissimo che il sale non entri in contatto diretto con il lievito, in quanto rende inattiva per apnea circa il 30% delle cellule; è ad ogni modo essenziale in quanto ingrediente, non solo per la sapidità ma anche e soprattutto per la stabilizzazione dell’impasto e della struttura proteica.
Aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta e solo quando la precedente è stata assorbita, per non rischiare di rovinare la maglia glutinica.

L’impasto è pronto quando si stacca facilmente dalle pareti e addirittura le pulisce, risulta liscio, non appiccicoso e dall’aspetto sostenuto; ricordatevi di arrivare ad almeno 24 °C interni, senza superare i 27; al suo interno non devono esserci residui di farina, ed è bene che durante la lavorazione sia stata inglobata sufficiente aria grazie all’azione dell’impastatrice o del vostro braccio, per avviare la cosiddetta lievitazione meccanica.

Impastamento per bun multicereali

Le fasi di impastamento, chiusura e riposo di un impasto per bun multicereali.

A questo punto lasciate riposare per circa 15 minuti coprendo la ciotola con della pellicola trasparente, per evitare la disidratazione superficiale e la formazione della cosiddetta pelle. Iniziate quindi ad effettuare 3 o 4 rigeneri a distanza di 5-10 minuti l’uno dall’altro (montando il gancio nel caso dell’impastatrice), ripiegando l’impasto su se stesso a velocità sostenuta per qualche secondo, finché non si stacca completamente dalle pareti; in questo modo l’impasto si asciugherà ulteriormente e comincerà a chiudersi, finalizzando la struttura.
Questo video dell’abilissimo Giovanni Tesauro dovrebbe chiarirvi per bene una procedura sicuramente non immediata.

Effettuati i rigeneri in vasca, è il momento di andare di olio di gomito: rovesciate l’impasto su un piano di lavoro liscio, prendetelo con due mani al centro e portatelo in aria, per poi farlo ricadere con forza e trascinarlo verso voi stessi per agevolare la chiusura nella parte inferiore. Ripetete l’operazione più volte fino alla formazione di una massa liscia e levigata; di nuovo, effettuate lo stesso procedimento per 3 o 4 volte a distanza di 5-10 minuti, per chiudere definitivamente l’impasto. Di nuovo, vi rimando ad un altro video di Giovanni per fissare anche questi concetti.

Ponete a questo punto l’impasto ottenuto in un recipiente che sia capiente almeno il triplo della massa ottenuta, e sigillatelo per bene con il coperchio o con della pellicola trasparente; dopo una prima ora a temperatura ambiente per far partire il processo fermentativo, posizionatelo in frigorifero per i tempi di puntata previsti.

Impasto con farina di tipo 1

L’impasto chiuso, ben liscio e con una salda maglia glutinica

Dopo lo staglio formate dei panetti di circa 100-120 g per hamburger da 180-200, chiudendoli con la stessa metodologia vista per l’intera massa. Lasciateli riposare circa 30 minuti coperti con della pellicola trasparente, per poi schiacciarli leggermente con i polpastrelli; grazie a questo piccolo trick che impedisce al Bun di svilupparsi eccessivamente in altezza eviterete di dover addentare i proverbiali 6 metri di pane con 2 centimetri di carne.

N.B. Per sfatare un altro mito, vi consiglio caldamente di evitare il classico spolvero di farina sul piano per la gestione della massa o la formazione dei panetti, in quanto crea un fastidioso effetto saponetta, altera l’equilibrio della ricetta e, asciugando solo la parte superficiale, vi impedisce di chiudere adeguatamente l’impasto.

Solo nel caso in cui il semilavorato risulti ancora appiccicoso quindi, anziché impazzire con enormi quantità di farina aggiuntiva, inumiditevi leggermente le mani: in tal modo riuscirete a gestire senza problemi anche impasti fortemente idratati.

Cottura

Qui c’è ben poco da inventare, in quanto per ottenere la tanto desiderata nuvola è indispensabile far evaporare l’umidità in eccesso nel minor tempo possibile, senza però incorrere nella formazione della tipica crosta delle usuali forme di pane.

Per questo motivo, qualunque sia il dispositivo di cottura scelto (forno a incasso statico, a legna o il vostro inseparabile Kettle) il mio consiglio è di stabilizzare la temperatura a 230 °C, ma soprattutto di saturare l’ambiente di umidità mediante l’utilizzo di un Water Pan posto in fase di riscaldamento, che impedirà l’indesiderata Reazione di Maillard sulla superficie esterna.

Gestione del vapore in un forno a incasso

Uno dei tanti metodi da adottare per generare vapore in un forno a incasso sprovvisto della relativa funzione.

Per verificare l’avvenuta cottura dei Bun è necessario un doppio controllo: constatato il raggiungimento dei 90 °C interni (per forme di 100-120 g ci vorranno circa 10 minuti) effettuate una prova con uno stuzzicadenti per accettarvi che la mollica sia completamente asciutta.

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