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L'importanza della fase di Rest

Copertina Rest

Il concetto di rest, o mantenimento che dir si voglia, giunge tipicamente in ritardo nell’immensa schiera di conoscenze che il Pitmaster amatoriale desidera acquisire; difficilmente (ed erroneamente) se ne comprende l’estrema importanza, troppo concentrati al raggiungimento di un certo sapore, di canoni di morbidezza, affumicatura e sapidità.

Ci siamo passati tutti: spacchettato e montato il lucente Kettle ricevuto per Natale, corriamo a racimolare quante più informazioni possibili su quel godurioso Pulled Pork di cui tanto abbiamo sentito parlare.
Sembra facile, tutto sommato; prendiamo la nostra coppa di maiale, la ungiamo d’olio, cospargiamo di spezie e la mettiamo in cottura a 110 °C con una manciata abbondante di chips di ciliegio, passiamo in foil una volta che il bark ci soddisfa e attendiamo i fatidici 98 °C interni per immergerci nel momento tanto atteso: il pullaggio.

Animati da un istinto quasi selvaggio e omicida, prendiamo un paio di forchette e ci gettiamo a capofitto sulla povera coppa, riducendola letteralmente in fumanti brandelli.
Il risultato è sicuramente migliorabile, ma ci soddisfa, del resto è sempre la prima volta.
Arriva quindi la mandria di amici e parenti, invitati in occasione dell’inaugurazione del nuovo giocattolino, e ci accingiamo a servire gli sfilacci di porco.

Sfilacci di Pulled Pork

Ed ecco che arriva la prima, triste sorpresa: nel tempo intercorso tra il pullaggio e il servizio, il nostro maialino sembra essersi asciugato, e la situazione non fa che peggiorare.
Eppure solo mezz’ora fa era perfetto, dove abbiamo sbagliato?

La risposta è semplice: non è stato condotto alcun mantenimento dopo la cottura, il famoso rest.
Ma perché il riposo è così importante in queste preparazioni, al punto da ribaltarne il risultato finale?
Seguitemi, e scopriamolo insieme.

Il ruolo del collagene

Già vi sento, voi, fanatici della bistecca.
“Due minuti sul tagliere, in modo che i succhi si ridistribuiscano per bene!”
E che è, un’autostrada lì dentro?
Leggenda metropolitana, niente di più.

“No no, i succhi non si ridistribuiscono da nessuna parte, semplicemente riacquistano densità.”
Vero, tu hai studiato qualcosina in più dell’altro, ma qui stiamo parlando dei giganti del barbecue, chili e chili di ciccia fumante, non più di bisteccazze violentemente cauterizzate.

In casi simili entra il gioco il ruolo del collagene, un composto proteico molto complesso che presenta una struttura a tripla elica, nella quale gli amminoacidi presenti tendono a collegarsi tra di loro in maniera differente a seconda di età, vita e genetica dell’animale, creando una rete che “tiene insieme” i tessuti muscolari, ed è il principale responsabile della tenacità di un pezzo di carne alla masticazione.

Struttura del collagene

Un taglio derivato da un gruppo muscolare molto sviluppato tenderà ad avere una struttura del tessuto connettivo importante. Un taglio derivato da un gruppo muscolare poco utilizzato tenderà, invece, ad avere una struttura del tessuto connettivo molto debole.
Ed è proprio il caso dei mastodontici pezzi utilizzati per le preparazioni della Holy Trinity+1 del Barbecue americano: il Brisket (punta di petto di manzo), il Pulled Pork (spalla di maiale sfilacciata), le Pork Ribs (costine di maiale) e le Beef Ribs (costine di manzo), quel +1 che cito necessariamente per una sorta di amore ossessivo compulsivo.

Beef Ribs di Stefano Noli

Le succosissime e goduriose Beef Ribs di Stefano Noli.

Chiunque abbia letto la serie Smoke To Perfection edita dal nostro Gianfranco Lo Cascio, saprà che a certe temperature il collagene inizia a denaturare fino a sciogliersi, trasformandosi in “morbida, succulenta e saporita gelatina” (cit.).
Precisamente, durante la cottura le proteine della carne cambiano la loro struttura, e mentre la miosina coagula consentendoci di determinare gli ormai celeberrimi gradi al sangue (55 °C), media (65 °C) e ben cotta (75 °C), il collagene segue un andamento separato: in ambiente umido, con innalzamento di temperatura bassa e costante e al superamento dei 60 °C le eliche iniziano a “srotolarsi”, indebolendo la fitta rete che contiene le fibre.

E’ tuttavia a temperature comprese tra gli 85 e i 100 °C che il tessuto connettivo perde definitivamente la sua struttura, la capacità di tenere insieme i filamenti di miosina e si degrada in una sostanza colloidale liquida e altamente viscosa.
Citando il sopra riportato Smoke To Perfection, e precisamente il tomo dedicato alle Ribs, diciamo che “la carne cotta a temperature comprese tra 85°C e 100°C può avere una consistenza da “relativamente tenera” a “tenera come il burro”; intorno agli 85°C le strutture importanti di connettivo iniziano a sciogliersi ed a perdere capacità strutturale, mentre a 100°C questo processo è sostanzialmente concluso.

Pork Ribs

La fase di rest

Ed è qui che, terminata la cottura del nostro pezzo di carne, entra in gioco il Rest.
Un abbassamento della temperatura porterà a un tentativo di ricostruzione dei legami, in una struttura tuttavia altamente instabile che tenderà a trattenere le molecole d’acqua liberatesi durante la cottura, formando la famosa gelatina, un composto che assume consistenza solida sotto i 35 °C, per poi degradare nuovamente se riscaldata.

Si tratta di un processo molto lento, dovuto proprio all’instabilità della nuova struttura. Va da sé che un raffreddamento graduale permetterà la formazione di un maggior numero di legami, trattenendo quindi più umidità e conservando morbidezza e succosità, prima di incorrere nella già citata solidificazione.

Per questo motivo, in contesto professionale e competitivo il rest viene effettuato servendosi dei cosiddetti isobox, dei contenitori costituiti in materiale isolante che permettono specialmente a Pulled Pork Brisket di concedersi un meritato riposo in condizioni ideali, raffreddandosi lentamente e mantenendo una temperatura al di sopra dei 60-65 °C in modo da consentire, dopo alcune ore, il servizio (o la consegna) previo riscaldamento repentino.
Un’alternativa economica ed efficace consiste nel preriscaldare il forno di casa a 60 °C, per poi spegnerlo una volta posizionatovi all’interno il vostro pezzo di carne.

Pulled Pork sfilacciato

La durata del rest varia a seconda di una serie innumerevole di variabili.
Come già accennato, la quantità di tessuto connettivo cambia in base al taglio di carne utilizzato, mentre le modalità con cui gli amminoacidi si collegano tra loro possono mutare parallelamente alle caratteristiche della materia prima.
Per questo è altamente improbabile determinare una misura univoca e matematicamente corretta del tempo necessario perché la fase di mantenimento consenta di raggiungere un risultato perfetto.
In molti lasciano riposare la carne fino a quattro ore, un termine che personalmente ritengo esagerato se non “pericoloso”, perché si rischia che il collagene faccia disastri e ci si ritrovi con un miscuglio indefinito che esula dai nostri obiettivi; preferisco rimanere quindi nell’ordine di un paio d’ore, ma tenete conto che, se non avete un isobox e il vostro forno disperde velocemente il calore, è meglio rimanere sulla singola ora per evitare non solo che la gelatina solidifichi, ma che addirittura l’umidità evapori, innescando un processo opposto a quello desiderato.

Ovviamente operazioni come lo sfilacciamento della spalla di maiale o l’affettamento della punta di petto di manzo dovranno essere condotte DOPO il rest, per evitare di perdere preziosa umidità.
Nella fattispecie, una volta appurato che il grado di cottura ci soddisfa, aprite qualche minuto l’involucro di stagnola per fermare la cottura, per poi richiuderlo e posizionare il vostro ben-di-Dio in isobox o in forno con tanto di succhi di cottura (sempre che ne abbiate, e in caso contrario siete in guai seri).
Terminato il mantenimento, togliete la carne dal foil, pullate se dovete pullare, affettate se dovete affettare, irrorate con i succhi conservati (allungando con dell’injection avanzata se necessario), scaldateli nel vostro dispositivo e godetevi il miracolo.

Il Brisket di Aaron Franklin

Lo strabiliante Brisket di Aaron Franklin, il celebre Pitmaster di Franklin Barbecue in Austin, Texas.

La maggior parte di noi fanatici del fuoco ha provato almeno una volta nella sua carriera il famigerato Pulled Pork, in quanto si tratta di una delle preparazioni più amate ma soprattutto soddisfacenti dell’intero American Barbecue.
Soddisfacenti perché, di fatto, “a pullare son capaci tutti”, basta raggiungere una temperatura prefissata e il gioco è fatto; certo, da qui a dire che il risultato è decente ce ne vuole, sono altri i canoni di valutazione di una buona spalla di maiale affumicata. Fatto sta che, successo o insuccesso che sia, ad una bella manciata di sfilacci non si rinuncia mai, perdonando l’effetto “bollito”, la scarsità di sapore, il bark umido e molliccio e così via.

Diverso è il discorso per preparazioni ben più complesse, come il Brisket, non a caso considerato da molti la vera sfida del Pitmaster, il suo punto di arrivo.
Fidatevi quando vi dico che con un Brisket asciutto ogni speranza è vana; c’è poco da fare, non va giù.
Qui la fase di Rest supera il desiderabile per sfociare nell’essenziale, pena il fallimento del tentativo e la rabbia per aver buttato via una barca di soldi e una marea di tempo.

Orsù dunque, correte a esercitarvi con questo benedetto mantenimento della ciccia.
Del resto non è giusto che solo voi possiate riposare dopo 8 ore di fatica e sudore, non trovate?

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